Il Ruolo Sociale delle Regole Cadorine di Lisa Guzzi


CAPITOLO QUARTO

GLI ASPETTI GIURIDICI DELLE REGOLE

 

4.1 La legge del 16 giugno 1927 n. 1766 sul riordinamento degli usi civici

La proprietà collettiva e gli usi civici in seguito alla caduta del feudalesimo vennero ritenuti in contrasto con la nuova idea di proprietà individuale, che si stava consolidando negli ordinamenti.

Si sviluppò la tendenza all’abolizione di tali istituti ed, in Italia, questo fenomeno venne in particolar modo avvertito nel Mezzogiorno, dove le popolazioni spesso non erano state in grado di auto organizzarsi in associazioni; in esse, mancava probabilmente una coscienza dei propri diritti e dei propri doveri, con la conseguente assenza in quelle regioni di proprietà collettive o di consorzi d’uso civico.

Nella relazione della Commissione legislativa, presentata alla Camera dei Deputati il 2/6/22, si volle sottolineare che gli usi civici rappresentarono un ostacolo allo sviluppo dell’economia agricola, pesando sulla proprietà privata terriera come vincolo; per questo motivo gli usi civici vennero liquidati, assegnando in proprietà una parte delle terre gravate dagli usi.

La legge n. 1766 1927, nell’articolo 1, indica il contenuto del diritto di uso civico, “diritto di promiscuo godimento delle terre spettanti agli abitanti di un Comune o di una frazione di Comune”, nel senso che gli utenti fruiscono, unitamente al proprietario e promiscuamente tra loro, delle “utilitas” che offrono la cosa oggetto del diritto.

Il capo primo di tale legge è titolato “Accertamento valutazione, affrancazione degli usi civici”; il giudizio di accertamento riguardava l’esistenza, la natura e l’estensione dell’uso civico, stabilendo che “ove non esista la prova documentale è ammesso qualunque altro mezzo legale di prova purché l’esercizio dell’uso civico non sia cessato anteriormente al 1800” (art. 2).

I diritti di uso dovevano essere fatti valere attraverso una apposita dichiarazione presentata al Commissario regionale per gli usi civici, entro sei mesi dalla pubblicazione della stessa; la mancata prestazione di tale dichiarazione ne importava decadenza, salvo che tali diritti non risultassero in effettivo esercizio (art. 3, III comma).

L’accertamento veniva svolto in sede giudiziaria dal Commissario, a seguito di un ricorso affiancato alla dichiarazione promosso dagli interessati.

La legge, nel suo art. 4, per ciò che riguarda la valutazione degli usi civici, li distingue in due classi: “essenziali”, necessari per i bisogni della vita, e “utili”, se hanno ad oggetto i diritti di raccogliere o trarre dal fondo altri prodotti, da poterne fare commercio, i diritti di pascere in comunione del proprietario e per la speculazione; ed in generale i diritti di servirsi del fondo per ricavarne vantaggi economici, che eccedano quelli necessari al sostentamento personale e familiare.

Tali distinzioni evidenziano la quantità di terra che, in sede di liquidazione degli usi stessi, vanno assegnate rispettivamente al proprietario ed alla popolazione: “il compenso per la liquidazione dei diritti suddetti è stabilito in una porzione del fondo gravato, o della parte del fondo gravata, al comune” (art. 5); perciò, il prezzo stabilito per la liquidazione non consiste, salvo eccezioni, in denaro.

I terreni di demanio civico sono, poi, distinti in due categorie, a seconda della loro diversa natura e potenzialità produttiva: terreni utilizzabili come bosco o pascolo permanente; terreni utilizzabili per la coltura agraria (art. 11).

Spetta al Commissario Regionale distinguere i terreni delle due diverse categorie; precisa, poi, il terzo comma dell’art. 12 che “i diritti delle popolazioni su detti terreni saranno conservati ed esercitati in conformità del piano economico e degli art. 130 e 135 del citato decreto, e non potranno eccedere i limiti stabiliti dall’art. 521 codice civile”.

Per quanto riguarda la legge forestale cui rinvia l’articolo in esame, il capo II del titolo IV è titolato “Patrimoni silvo-pastorali dei Comuni ed altri Enti”: gli enti cui si fa riferimento sono sia di diritto pubblico, come i Comuni o le frazioni, sia di diritto privato, come le Regole, le Vicinie, ecc., con la conseguenza che, in questo caso, i beni sono di proprietà collettiva e non, sottoposti ad usi civici, e saranno proprio gli stessi soggetti membri di tali enti che potranno esercitare gli usi.

L’art. 130 del R.D. n. 3267 dispone che i boschi “debbono essere utilizzati in conformità di un piano economico approvato o prescritto dal Comitato forestale”, ora, in seguito al R.D. n. 2011 del 20 settembre 1934, Camera di Commercio, Industria, Agricoltura e Artigianato.   

L’art. 135 della legge forestale precisa che i pascoli vanno utilizzati secondo norme approvate o prescritte dal Comitato stesso; in questa ipotesi il Comitato è dotato di maggiore discrezionalità potendo approvare norme indicate dallo stesso ente e imporre una propria disciplina.

La legge poi prevede la possibilità di istituire specifiche imprese volte alla gestione dei patrimoni silvo-pastorali.

Va precisato il riferimento alla norma del codice civile indicato nel III comma dell’art. 12 della legge del 1927: i diritti delle popolazioni saranno mantenuti ma entro i limiti indicati dall’art. 521 del codice civile del 1865 al quale corrisponde l’art. 1021 del codice del 1942; questo significa che potranno esercitarsi solo usi civici essenziali e non anche quelli utili.

I terreni agricoli (art. 11 lett. B) “sono destinati ad essere ripartiti fra le famiglie dei coltivatori diretti del Comune o Frazione, con preferenza per quelle meno abbienti, purché diano affidamento di trarne maggiore utilità” (art. 13).

La ripartizione è disposta sulla base di un progetto dell’Amministrazione, volto alla costituzione di unità fondiarie, unità assegnate poi a titolo di enfiteusi “con l’obbligo delle migliorie (art. 19)” ai coloni.

Tali migliorie rappresentano la condizione necessaria per ottenere poi l’affrancazione dell’enfiteusi (art. 21).

All’opposto della legge forestale, che aveva inteso assegnare alle associazioni private un ruolo fondamentale per lo sviluppo silvo-pastorale, la legge del 1927, nel I comma dell’art. 25, esprime la tendenza allo scioglimento di dette associazioni da effettuarsi con decreto del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, se si dovesse verificare “…che il patrimonio sia insufficiente ai bisogni degli utenti o vi siano motivi per ritenere inutile o dannosa l’esistenza di essi”.

La disposizione che rappresenta il vero ostacolo per lo sviluppo di tali enti, è il successivo art. 26, nel quale viene disposto l’obbligo dell’apertura dei beni stessi agli usi di tutti i cittadini, originari e non, membri della comunità, abitanti residenti nel luogo.

Viene esclusa, dal legislatore del 1927, la possibilità di costituire nuove associazioni volte al godimento comune dei beni di uso civico, prevedendo la necessità del riconoscimento di quelle già esistenti di fatto.

La legge in esame, all’art. 25 ultimo comma, vieta al Comune la possibilità di  modificare la destinazione dei beni posseduti dalle associazioni agrarie, senza che intervenga una specifica autorizzazione dal Ministero dell’Economia Nazionale.

La legge 31/1/94 n. 97 riguardante “Nuove disposizioni per le zone montane” al suo art. 3, invece, prevede sì la possibilità di un cambiamento di destinazione dei beni comuni ad attività differenti da quelle agro-silvo-pastorale, ma in questo caso l’autorizzazione sarà di competenza regionale.

4.2 Inapplicabilità alla Proprietà Regoliera della legge n. 1766 del 1927

La legge del 1927 voleva essere una legge unitaria, nazionale [23], realizzare una “artificiosa uniformità”; essa costruì la norma generale sulla base “della classica e sempre gloriosa legislazione meridionale” [24] tenne conto delle diversità locali e pretese di rivestire normativamente le situazioni particolari dell’Italia centro-settentrionale, realizzando un trapianto forzoso, innaturale e antistorico; strinse sotto la dizione di “usi civici” situazioni oggettivamente non riconducibili entro quell’unico denominatore.

La legge sugli Usi Civici è una legge che considera sullo stesso piano storico e giuridico situazioni diverse ed opposte, in base a presunzioni che sono contraddette da propri istituti e fonti normative, riconosciute ed osservate nei territori dell’Arco Alpino.

Secondo la Circolare Ministeriale 10 maggio 1928, n. 936, che interpreta la legge 16 giugno 1927, il legislatore assume delle premesse: gli utenti sono “cives” e le “terre” demani universali, in quanto succedono all’ordinamento feudale e comunale; tali terre sono la base storica ed economica del Comune amministrativo e gli attuali detentori sono usurpatori, senza titolo legittimo, per cui le terre pubbliche e demaniali devono essere restituite ed aperte all’uso di tutti i cittadini “qualunque sia il numero di essi”.

Questa situazione è uniforme per tutta l’Italia e per le regioni Alpine ed è stata sanzionata dal Decreto Italico 25 novembre 1806 e dalla Repubblica Veneta per l’Alto Veneto.

E’ necessario procedere alla trasformazione in senso pubblicistico della associazione di utenti attualmente esistenti e sottoporre a controllo le forme di godimento attuale nel senso di ridurle al minimo ed eliminarle trasferendole coattivamente ai Comuni e alla loro gestione.

Gli effetti giuridici di tale impostazione sono stati quelli di trasformare i beni di comunanza di natura privata, in terre pubbliche comunali e demaniali; di aprire le terre private all’uso di tutti i cittadini, senza considerare i limiti naturali di utilizzazione delle terre stesse; di attribuire la qualifica di usurpatori ai legittimi detentori delle terre, ai consorti coeredi nominalmente designati e riuniti in “regole” ed altre forme di associazione tipiche di lavoro e di produzione, con propria struttura e funzioni.

Gli effetti della legge risultano lesivi perché sottraggono ai regolieri i loro diritti patrimoniali acquisiti legittimamente ed incongrui, perché, data la limitatezza dei beni e della loro capacità produttiva, è impossibile aprirli al godimento di un numero illimitato di utenti, senza compromettere un sistema economico secolare e distruggere l’interesse a conservare e migliorare le aziende silvo-pastorali familiari.

Il legislatore dispone che “le norme contenute nel capo II della legge relativo alla sistemazione, ripartizione, godimento dei beni dei Comuni o delle associazioni, non saranno applicate alle associazioni agrarie composte da determinate famiglie che possedendo solo terre atte a coltura agraria vi abbiano apportato migliorie, ancorché in qualche zona i lavori di trasformazione fondiaria non siano ancora compiuti”.

Tale norma, limitata, venne interpretata restrittivamente [25] Le proprietà collettive delle Comunioni familiari montane non hanno nulla a che vedere con gli usi civici, ma hanno, nei secoli, confermato che tale fenomeno associativo, ristretto ai soli originari, è stato ed è il miglior mezzo di sfruttamento del terreno e di conservazione e tutela del patrimonio agro-silvo-pastorale.

4.3 D.L. 3 maggio 1948 n. 1104

La ricostituzione delle Regole è stata avviata con la normativa del 1948 e del 1952; tali provvedimenti garantirono alle Regole una vita autonoma distinguendole dagli usi civici soggetti alla disciplina abolitrice del 1927.

Il D.L. 3 maggio 1948 n. 1104 è stato il primo intervento il quale ha riconosciuto la personalità giuridica di diritto pubblico alle Regole del Cadore e dettato norme riguardanti l’utilizzazione dei loro beni: questo è stato il primo riconoscimento giuridico delle Regole.

La soggettività giuridica, con la titolarità dei beni, attribuita agli enti regolieri sono stati i mezzi più efficaci, attraverso i quali lo Stato ha inteso assicurare il mantenimento della destinazione dei beni.

Le Regole hanno così ottenuto il riconoscimento di enti preposti alla conservazione e al miglioramento dei loro beni agro-silvo-pastorali, alla gestione e godimento degli stessi e all’amministrazione dei proventi che ne sarebbero derivati.

I beni immobili, per evitarne la dispersione, sono stati dichiarati inalienabili, indivisibili e vincolati in perpetuo al godimento diretto da parte dei regolieri; hanno ottenuto riconoscimento i particolari diritti di pascolo, legnatico e rifabbrico.

L’amministrazione dei beni agro-silvo-pastorali, affidata alle frazioni comunali, venne poi riservata alla commissione amministrativa di ciascuna Regola o delegata dall’assemblea dei regolieri al Comune.

Uno dei principi ispiratori del decreto è stato quello di salvaguardare anche gli interessi dell’intera collettività connessi all’amministrazione del patrimonio regoliero.

Sussisteva anche una motivazione di ordine pratico: molti Comuni erano quasi privi di un proprio patrimonio forestale e, per questo, mancavano della fonte diretta di entrate che si doveva compensare; quindi una volta soddisfatti i diritti preminenti dei regolieri, gravava su ciascuna Regola l’obbligo del concorso ad attività comunali.

L’innovazione consiste nell’aver reso obbligatoria questa forma di contribuzione già presente nei rapporti tra Regola e Comune, come una consolidata consuetudine fin dalla nascita dello stesso ente territoriale: tale obbligo poteva essere assolto con un contributo finanziario al bilancio comunale o con la realizzazione di opere di competenza del Comune; la misura poi di questo contributo doveva essere determinata da un accordo fra Regola e Comune in funzione delle disponibilità risultanti dai bilanci regolieri.

Secondo il decreto, le Regole potevano ricostituirsi con la deliberazione da parte dell’assemblea dei regolieri di un proprio statuto, il quale doveva essere presentato in prefettura, con l’elenco nominativo dei regolieri e insieme alla mappa dei beni della Regola.

Le norme statutarie venivano sottoposte alla approvazione della giunta provinciale amministrativa.

Il nuovo statuto doveva contenere norme per l’organizzazione e per il funzionamento dell’ente, per l’amministrazione e il godimento dei suoi beni, per l’acquisizione e la perdita delle qualità regoliere.

Le delibere, i bilanci, i conti consuntivi e il regolamento dovevano essere approvati dalla giunta provinciale amministrativa e dal ministero dell’agricoltura e delle foreste; lo statuto doveva esplicitare l’obbligatorietà del concorso di ciascuna Regola all’attività comunale.

Questo D.L. n. 1104 del 1948 aveva determinato differenziazioni, in seno all’istituto regoliero, dettando disposizioni specifiche per le sole Regole del Cadore: è stato così di fatto riconosciuto un diverso regime alle Regole non cadorine, quelle ampezzane non si avvalsero di queste disposizioni che riconoscevano alle Regole una autonomia limitata.

In Comelico, tutte le Regole si sono adeguate al nuovo ordinamento mentre nel restante Cadore lo ha fatto solo la Regola di Vodo.

Il D.L. n. 1104 presenta un taglio pubblicistico; con esso era stato sancito il  ruolo istituzionale delle Regole, con il riconoscimento ex lege della personalità giuridica di diritto pubblico.

Tale connotazione pubblicistica va intesa come espressione di un interesse pubblico, in relazione al vincolo di destinazione dei beni regolieri.

Il profilo pubblico non diviene totalizzante, restando una fisionomia di tipo privatistico, in special modo per quanto riguarda la pertinenza del patrimonio e il regime di appartenenza alla Regola.

Il nostro è un sistema che conosce solo enti di genere privato e pubblico: per questo, il Pototschnig ha designato la Regola come persona giuridica privata di interesse pubblico a [26] L’ente regoliero viene così ad avere una fisionomia mista, privata in “odor” di pubblico [27] All’attività esercitata dalla Regola per il perseguimento dei suoi fini privati si accompagna un interesse pubblico sociale: secondo Pototschnig, c’è un interesse collettivo a che la Regola svolgendo la propria attività possa soddisfare e realizzare, oltre agli interessi privati, anche quelli pubblici.

Le manifestazioni di questa utilità pubblica sociale sono molteplici: la Regola, amministrando il proprio patrimonio, può incoraggiare e promuovere l’istruzione professionale, agricola ed artigiana, favorire la cooperazione e la mutualità, provvedere in caso di calamità della popolazione a sussidi di beneficenza, incoraggiare e promuovere il turismo ecc..

Queste attività sono previste come fini facoltativi accanto a quelli principali dagli statuti.

4.4 Legge 25 luglio 1952 n. 991

Nel 1952, è stata promulgata la legge sulla montagna n. 991, contenente provvedimenti a favore dei territori montani; tale legge si conformava al precetto costituzionale contenuto nell’art. 44, il quale aveva recepito il problema della terra dei territori montani.

Nel 1948, il legislatore, aveva rinunciato ad allargare la disciplina delle Regole cadorine a quella ampezzane, riconoscendone implicitamente la diversità: in questo modo, si era creato il problema per cui solamente alcune Regole avevano una normativa, quelle cadorine, mentre altre no, come quelle ampezzane. 

Si cercò, perciò, di creare una soluzione comune a tutte le comunioni familiari montane abbracciando con questa definizione una molteplicità di enti.

La legge n. 991 disciplina questa materia nell’art. 34, affermando, come faceva anche la legge 1104, che queste comunioni rispondono ai fini di conservare, migliorare, gestire e godere dei loro beni in conformità ai loro rispettivi statuti e consuetudini riconosciuti dal diritto anteriore; il riferimento al diritto anteriore ha per effetto quello di abrogare il ricorso alla legge 16 giugno 1927 n. 1766 relativa agli usi civici.

L’art. 34 tende a restituire le proprietà comuni dei montanari alla disciplina dei loro statuti e laudi, distinguendo le terre civiche da quelle privatizzate dai regolieri attraverso il lavoro e l’industria [28] Tale articolo non ha avuto una ferma applicazione, nemmeno dopo la pubblicazione del regolamento di esecuzione della legge n. 991 il quale, all’art. 30 dichiara che le comunità familiari montane di cui all’art. 34 conservano la loro autonomia per il godimento, l’amministrazione e l’organizzazione dei loro beni agro-silvo-pastorali appresi per laudo.

Gli articoli 34 e 30 sono rimasti mera dichiarazione di principio e si dovette ricorrere nuovamente al legislatore, per un’indicazione chiara ed inequivocabile di comunione familiare montana, per disciplinare  in maniera univoca, le Regole ampezzane, quelle del Comelico, che avevano adempiuto al D.L. n. 1104, e quelle del restante Cadore.

4.5 Legge 6 ottobre 1967 n. 957

La legge n. 957 si compone di un unico articolo di modifica all’art. 2 del D.L. n. 1104: si tratta di modifiche attuate su proposta del senatore Vecelio volte a integrare il citato articolo.

L’art. 2 del D.L. 1104 aveva stabilito l’inalienabilità, l’indivisibilità e la vincolatività in perpetuo alla loro destinazione dei beni immobili della Regola, ma non aveva indicato se era possibile svincolare singoli beni, in caso di particolari necessità: si era così prodotta una cristallizzazione nella condizione giuridica dei beni regolieri.

Con le modifiche apportate nel 1967, si era voluta colmare quella che si riteneva fosse una lacuna, rendendo possibile l’alienazione o il mutamento di destinazione dei beni agro-silvo-pastorali delle Regole.

Questo era permesso solo per finalità legate allo sviluppo del turismo o industriale della zona, per estensioni limitate, in proporzione al territorio della Regola.

Doveva esserci l’interesse superiore dell’intera collettività per avvalersi di queste opportunità e il ricavato doveva essere impiegato nell’acquisto di altri beni agro-silvo-pastorali o nel miglioramento fondiario di quelli esistenti: in questo modo, si doveva conservare il valore totale del patrimonio regoliero.

Nel caso di Regole che amministrassero direttamente il loro patrimonio era necessaria la maggioranza qualificata per approvare la scelta.

Per la validità della deliberazione era richiesto in prima convocazione l’intervento di almeno 2/3 dei regolieri iscritti all’anagrafe e il loro voto favorevole dei 2/3 degli intervenuti.

In seconda convocazione, bastava l’intervento di almeno metà dei regolieri iscritti e il voto favorevole dei 2/3 degli intervenuti.

La deliberazione in seconda convocazione poteva essere anche presa con il voto favorevole di 1/3 dei regolieri.

Dove i beni regolieri erano amministrati per delega dal comune, era richiesto l’intervento di almeno 2/3 dei consiglieri con il voto favorevole di 2/3 degli intervenuti.

La deliberazione era sottoposta alla approvazione della giunta provinciale amministrativa.

4.6 Legge 3 dicembre 1971 n. 1102

La legge n. 1102, “Nuove norme per lo sviluppo della montagna”, per certi aspetti, rappresenta una revisione delle leggi precedenti e, per questo, potrebbe essere considerata come un tentativo di riordinamento organico della materia; una specie di legge cornice che delinea un nuovo assetto reale e potenziale degli organismi pubblici e privati presenti in montagna.

L’art. 1 dispone: “Le disposizioni della presente legge sono rivolte a promuovere la valorizzazione delle zone montane favorendo la partecipazione delle popolazioni, attraverso le Comunità montane, alla predisposizione e all’attuazione dei programmi di sviluppo e dei piani territoriali dei rispettivi comprensori montani ai fini di una politica generale di riequilibrio economico e sociale nel quadro delle indicazioni del programma nazionale”.

Tra i pregi di questa nuova legge per la montagna, c’è il merito del legislatore di avere preferito una articolazione più duttile e rispondente o adattabile alle peculiari caratteristiche ambientali di singole zone montane, con una corrispondenza più puntuale tra i vari livelli di interesse pubblici riconosciuti e gli apparati organizzativi preposti al loro soddisfacimento e alla loro tutela.

In questo modo, va interpretata la scelta di dar vita alla Comunità montana, che costituisce il tratto caratterizzante e originale della legge e rappresenta il primo sbocco positivo al dibattito per quanto riguarda l’opportunità di dar vita ad un ente intermedio tra Provincia e Comune, ponendo solo i principi quadro sulle Comunità montane e lasciando che la “cornice” venga poi riempita dalle Regioni e dalle stesse Comunità montane attraverso le rispettive autodeterminazioni statuarie.

4.7 Coordinamento tra il D.L. n. 1104 e la L. n. 1102

E’ necessario accertare quali siano le fonti di diritto vigenti per le varie categorie di Regole.

Il quesito maggiore riguarda la sopravvivenza o meno delle norme del D.L. n. 1104 caratterizzate da un taglio pubblicistico; le possibili risposte riguardano il pieno superamento del D.L. n. 1104, la sua vigenza circoscritta alle Regole del Cadore, la sua integrazione con le norme più recenti per le Regole del Comelico [29] Non è possibile considerare abrogata la legislazione del 1948 e non si può ricorrere all’art. 34 della L. n. 991 per stabilire il decadimento visto che questo articolo ha confermato il fondamento della disciplina riguardante le comunioni familiari montane nel diritto anteriore; di conseguenza il decreto del 1948 è stato applicato oltre il 1952 ed è stato ripreso e confermato espressamente anche dalla legge n. 957 del 1967 e non può essere considerato superato neppure dagli articoli 10 e 11 della L. n. 1102.

La stessa legge all’art. 17 si qualifica come “integrativa” di quelle precedenti sulla montagna.

Risulta impossibile sostenere che la L. 1102 non abbia apportato delle modificazioni all’ordinamento regoliero tracciato nel 1948.

La normativa del 1971 ha modificato la disciplina anteriore attribuendo alla Regione il potere legislativo, regolamentare e amministrativo: spettano così ad organi regionali i controlli sull’attività regoliera, che prima erano previsti in capo alla giunta provinciale amministrativa.

Tali poteri sono stati ridefiniti con legge regionale secondo quanto stabilito dalla L. 1102 negli art. 10 e 11.

L’esistenza di controlli si spiega considerando il potenziale allargamento dei fini facoltativi delle Regole, sia la dimensione crescente dei problemi ecologici.

La L. n. 1102 mantiene inalterato, mediante rinvio a statuti e consuetudini, il regime dei rapporti tra Regola e Comune, tali legami risalgono al periodo della nascita del comune e sono stati poi riportati anche negli statuti.

Negli statuti successivi al 1971 non si fa più menzione di tale obbligo.

Giudicando ancora applicabile il D.L. n. 1104, si possono ipotizzare quattro gruppi di Regole: le Regole disciplinate dal decreto legislativo del 1948 ed ora richiamate dagli art. 10 e 11 della L. 1102; le Regole disciplinate dal decreto legislativo del 1948 e non richiamate in modo esplicito dalla L. n. 1102; le Regole indicate in modo esplicito solo dall’art. 10 della L. 1102; le Regole previste solo genericamente dall’art. 34 della L. n. 991 e ora implicitamente dall’art. 10 della L. n. 1102.

Questo elenco non prende in considerazione tutte le Regole del Cadore, le quali non avendo accolto le direttive della normativa del 1948 non si possono ritenere ricostituite.

4.8 Legge regionale 19 agosto 1996 n. 26

Il provvedimento regionale riguardante il “Riordino delle Regole”, approvato il 26 luglio 1996, porta chiarezza nella materia legata alla natura giuridica delle Regole, della loro ricostruzione, del patrimonio antico e dei rapporti con gli altri enti locali.

Le Regole vengono riconosciute dalla Regione Veneto “come organizzazioni montane, come soggetti concorrenti alla tutela ambientale e allo sviluppo socioeconomico del territorio montano …” Ai sensi del II comma vanno considerati quali Regole: “…le Comunità di fuochi-famiglia o nuclei familiari proprietarie di un patrimonio agro-silvo-pastorale collettivo, inalienabile, indivisibile, inusucapibile comprese le Comunioni familiari montane e le Regole Cadorine”.

A tutte le Regole viene riconosciuta la personalità giuridica di diritto privato, ciascuna Regola è retta unicamente dal proprio Laudo o statuto e dalle proprie consuetudini, nel rispetto dei principi della Costituzione e dell’ordinamento.

Il provvedimento regionale, oltre a dare certezze alle Regole costituite, offre speranza agli aventi diritto che ambiscono a ricostituire una propria Regola in loco; questo è un dispositivo di legge volto allo sviluppo dell’esistente.

Nell’art. 5 del II comma emerge il “patrimonio antico”, il quale risulta essere inalienabile, indivisibile, inusucapibile e vincolato alle attività agro-silvo-pastorali e connesse; restano esclusi dal vincolo e possono formare oggetto di libera contrattazione gli immobili iscritti al nuovo catasto edilizio urbano ed aventi una destinazione diversa da quella agro-silvo-pastorale, i beni immobili compresi nelle aree edificabili dei centri urbani previste negli strumenti urbanistici.

Viene prevista la possibilità di modificare la destinazione dei singoli beni per consentirne l’utilizzazione a fini turistici e a fini artigianali, per la realizzazione di opere pubbliche e per l’utilizzazione abitativa diretta e personale da parte dei regolieri.

La deliberazione di modifica di destinazione viene adottata con la maggioranza prevista dallo statuto e deve indicare la diversa utilizzazione prevista; la concessione deve avere durata limitata al periodo necessario per l’uso consentito ed al termine della concessione deve essere possibile il ripristino della destinazione originaria.

Nel caso in cui la diversa utilizzazione sia realizzata da un terzo, questi dovrà assumere l’obbligo di ripristinare la destinazione del bene alla cessazione della diversa utilizzazione, senza nessun onere per la Regola.

La Regola è obbligata ad acquisire il parere del servizio forestale regionale.

La gestione e l’utilizzazione dei beni agro-silvo-pastorali e dei relativi prodotti viene affidata alla Regola dalla legge regionale, le Regole la curano secondo la consuetudine, le norme statutarie e le modalità dettate per i terreni forestali statali e regionali.

In caso di impossibilità di funzionamento o inerzia della Regola, il Presidente della Giunta Regionale garantisce appropriate forme sostitutive di gestione dei beni in proprietà collettiva fino a quando la Regola non sarà in grado di riprendere la gestione.

Le Regole, all’art. 10, possono associarsi fra loro per la gestione congiunta dei rispettivi beni e dei relativi servizi affidandola ad un organo comune composto e funzionante, secondo le norme previste dai rispettivi Laudi; in loro mancanza, secondo le norme concordate fra le Regole interessate.

Nel III comma è previsto che le Regole possono delegare la gestione dei propri beni agli enti pubblici operanti nel territorio; analoga facoltà può essere esercitata dagli enti pubblici nei confronti delle Regole.

L’art. 14 parla dei rapporti tra le Regole e gli Enti Locali: “la Regione, i Comuni e le Comunità Montane possono affidare alle Regole la realizzazione di interventi attinenti o legati alle loro funzioni garantendo le risorse necessarie”; il II comma prevede che gli enti pubblici territoriali sono tenuti a coinvolgere le Regole nelle scelte urbanistiche e di sviluppo locale, nei processi di gestione forestale ed ambientale e di promozione della cultura locale, per valorizzare le potenzialità dei beni agro-silvo-pastorali, sotto il duplice profilo produttivo e della tutela ambientale; risulta esplicito il riconoscimento del valore della tradizione regoliera e del suo legame con l’ambiente.

4.9 La normativa in vigore

La dottrina si è sforzata di verificare il riconoscimento del carattere pubblico attribuito agli enti regolieri dal D. L. n. 1104 ma, nonostante questo, si rilevano ancora incertezze riguardanti appunto la qualificazione privatistica o pubblicistica da attribuire alla personalità giuridica delle Regole.

Emergono due correnti di pensiero, la prima di chi ritiene prevalenti gli elementi pubblicistici ed evidenzia il rilievo pubblico di alcuni fini delle Regole [30] oppure considera l’attribuzione pubblica una garanzia di tutela del patrimonio collettivo da fenomeni eversivi [31] la seconda di coloro che ne hanno evidenziato la natura privata ponendo, però, in risalto la rilevante utilità sociale delle Regole colorandola di profili pubblici.

Bolla è per la configurazione privatistica delle comunioni familiari: lo studioso evidenzia la carenza dei poteri pubblici, la mancanza di indici di pubblicità, la connotazione privatistica dei fini e la struttura chiusa delle comunità.

Su questo tema, ci sono diverse posizioni, ma la normativa del 1971 sembra far prevalere la posizione di chi sottolinea la natura privata e solo mediamente e di riflesso quella pubblica.

Le Regole hanno una fisionomia mista che tende a superare l’antitesi fra pubblico e privato; si potrebbe parlare di enti privati di interesse pubblico.

Nell’ipotesi che si accetti l’esistenza di un ente intermedio, le Regole potrebbero esservi comprese vista la loro struttura e considerati i vari fini pubblici che si prefiggono.

Non ha importanza comunque definire un ente pubblico anziché privato in quanto l’ordinamento non disciplina in maniera uniforme gli enti pubblici in quanto tali, ma è più importante studiare il modo di formazione della volontà dell’ente, la capacità di cui gode e la disciplina della sua attività.

La normativa in vigore, le fonti primarie del diritto per le Regole cadorine è legata alle leggi nazionali, regionali e ai regolamenti regionali descritti nei precedenti paragrafi, i quali hanno un’importanza fondamentale perché riassumono tutte le disposizioni di legge specifiche e disciplinano in modo molto completo l’attività regoliera, rendendo raro il ricorso alle consuetudini che assieme agli statuti rappresentano le fonti secondarie.

 



23 P. Grossi, “Quadri Fiorentini XIX”.

24 G. Curius, Gli usi Civici, Roma, Libreria del Littorio, 1928, p. 20.

25 E. Romagnoli, “Comunioni familiari dell’Arco Alpino”.

26 U. Pototschnig, Le regole della magnifica comunità cadorina, Milano, 1953, p. 51.

27 G. C. De Martin, Questioni irrisolte nell’inquadramento giuridico dell’istituto regoliero, in “Riv. Diritto della regione Veneto, n. 1, Padova, 1983, p. 173.

28 C. Trebeschi, Variazioni sul tema delle comunioni familiari montane nella regione Veneto, in “comunioni familiari montane”, Brescia, 1975, p. 495.

29 G. C. De Martin, Le Regole cadorine fra tradizione e adeguamento, in “Riv. dolomiti”, Belluno, istituto bellunese di ricerche sociali e culturali, 1983, p. 7

30 C. Frassoldati, L’ordinamento giudiziario forestale e montano in Italia, Firenze, 1960, p. 124-125.

31 E. Romagnoli, Comunioni familiari montane e regole dell’arco alpino, in “Riv. agraria”, 1971, p. 163.


(Il Ruolo Sociale delle Regole Cadorine di Lisa Guzzi)
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